sabato 28 agosto 2010

FOGGIA CAPITALE (ancora?) DELL’INTERMODALITA' E DELLA SOSTENIBILITA'.

Lo storico nodo di piazzale Vittorio Veneto ‘lanciato’ verso le ‘grandi’ prospettive del trasporto nazionale e locale.

E' questo il titolo di uno degli ultimi 'comunicati stampa' del Comune di Foggia: categoria: Sindaco; pubblicatore: Giovanni Dello Iacovo. Chi se lo vuole leggere integralmente, si porti nella home page: www.comune.foggia.it nella sezione: Comunicati Stampa - 13/08/2010 - Sulla Gazzetta europea l’avviso per il Nodo intermodale della stazione di Foggia.

Il Comune di Foggia ottiene il contributo finanziario per un importo complessivo di €. 4.750.000,00 per la “realizzazione dell’intervento Nodo di scambio intermodale Foggia Stazione”,a valere sul Programma Operativo FESR Puglia 2007 – 2013 Asse V Linea di Intervento 5.2 .

Dopo le notizie sconfortanti, legate alla grave situazione economico-finanziaria del nostro Comune, riguardo alla quale è stato convocato il 9 settembre prossimo il Consiglio, affinchè decida se c'è o meno il dissesto finanziario evocato dalla Corte dei Conti di Bari, ecco che arriva ai cittadini foggiani un buon annuncio, direttamente dal Sindaco o, più precisamente, a mezzo della penna di uno dei suoi addetti (pagati) all’ufficio stampa. «Foggia ha deciso di avviare dalla stazione di Piazzale Vittorio Veneto la strategia di modernizzazione del sistema della mobilità sostenibile, per confermarne l’assoluta centralità nel sistema dei trasporti – dichiara il sindaco, Gianni Mongelli –. Ciò tanto per la modalità ferroviaria che per quella automobilistica, perché l’intervento che matura con lo Stralcio prende le mosse dalla rimodulazione di un progetto di mobilità innovativa, già elaborato dal Comune di Foggia a livello esecutivo in modo da integrarlo con la dorsale Treno-Tram Lucera-Foggia-Manfredonia prevista dal Piano Regionale dei Traporti, dal Piano Territoriale di Coordinamento e dal PUMAV “Capitanata 2020”».

E come si fa a non mettere in relazione le due notizie, l'umore che ognuna di esse crea nella cittadinanza. Da una parte il Comune di Foggia è tra i più indebitati della nazione (250 e passa i milioni di euro di debito, che temiamo ingigantiranno dopo un serio accertamento della situazione debitoria). Eppure i suoi amministratori ottengono di gestire 4.750.000,00 euro per il progetto di un tram-trenino che renderebbe la nostra Città Capitale dell’Intermodalità e della Sostenibilità. Lo ‘storico’ nodo di piazzale Vittorio Veneto ‘lanciato’ verso le ‘grandi’ prospettive del trasporto nazionale e locale. Mentre l’ufficio urbanistica invita gli interessati a consegnare le loro proposte per la realizzazione dell’opera, i cittadini foggiani, pure questa volta non hanno la possibilità di comprendere chiaramente la portata di questa realizzazione, le convenienze sociali ed urbane legate a questo treno-tram e, perché no, i suoi costi definiti, ivi comprese le spese di manutenzione che graveranno sulle casse comunali e quindi sulle tasche cittadine per poi gestire l’impianto realizzato.

Su questo argomento: il treno tram di Foggia Capitale e il piano Capitanata 2020, scrivemmo qualcosa nel mese di gennaio 2010. Le perplessità allora espresse rimangono tutte. Anzi esse si sono aggravate per come s’è intanto evoluta la vicenda del debito che grava sul nostro Comune.

Forse a questo contributo finanziario pro trenino s’attaccano le intenzioni di quegli amministratori, che negano la pronuncia istituzionale del dissesto finanziario del Comune di Foggia. Sta per arrivare una bella palata di euro da gestire ed è meglio che lo facciano loro amministratori eletti, piuttosto che qualche incaricato dallo Stato.

Insomma, sembrerebbe che a noi questo tram dei desideri non piaccia proprio.

No, non è così.

Anzi, a immaginarcelo, così come lo abbiamo ammirato in altre città, esso ci fa pensare ad un contesto urbano migliore rispetto a quello odierno della nostra Foggia. Ci fa considerare che un progetto di tale innovazione, richiederà assolutamente una realtà comunale altrettanto rinnovata, in cui la politica foggiana s’è nel frattempo formata una coscienza amministrativa ben ordinata e capace; dove i cittadini hanno un comportamento civile progredito. Se il treno-tram porterà nella nostra città tutto questo, ben venga. Così come ogni foggiano desidera che Foggia sia ‘capitale’ di un modello urbano e sociale evoluto. Però non ci si dica di chiudere gli occhi su quella che è la situazione reale in cui ci troviamo e male viviamo. Sognare ciò che desideriamo e che ancora non abbiamo, per non soffrire la realtà urbana che oggi si ‘vive’ in città, è un esercizio inutile e dannoso, per chiunque abbia coscienza e ragione.

Quanto al progetto in questione, la sua disamina è imbarazzante.

I suoi costi rivelano una fattura affatto locale. Si è badato più agli affari del mattone, cemento ed asfalto (marciapiedi e banchine, pensiline, opere civili), che alle opere tecnologiche. Eppure il progetto doveva essere simbolo della tecnologia più moderna. Siamo nel periodo del voltaico, della cinetica, in cui con l’impiego di materiali appropriati si produce l’energia elettrica necessaria. In tale progetto si punta sui soliti materiali, evidentemente per dare ancora lavoro ai ‘muratori’ locali. Insomma, come accade da sempre nella nostra Foggia, mentre i progettisti non si curano d’essere anche i critici ed i patologi delle esigenze del territorio e della gente in cui l’opera sarà realizzata, così trascurano d’applicarvi (nemmeno ‘inventarsi’) un po’ di quella tecnologia architettonica e d’impiego che darebbe all’opera bellezza visiva e, nello stesso tempo, una migliore funzionalità ed anche economia d’uso. Pur nell’imbarazzo che ci risulta dai disegnini progettuali, presentiamo, senza cadere nella tentazione di ulteriori appunti critici, un sunto dell’opera progettata, che è meglio comunque visionarsi visitando in internet la home page del nostro Comune. gma

soggetto attuatore:

COMUNE DI FOGGIA

PROGRAMMA EDILIZIO:

NODO DI SCAMBIO INTERMODALE FOGGIA STAZIONE

LAmministrazione Comunale di Foggia, ha contribuito alla redazione di una progettualità integrata, denominata sinteticamente “Progetto Pilota Innovativo Treno-Tram. Il progetto di Treno-Tram prevede, a regime, la trasformazione in tranvia delle tratte “urbane” delle linee ferroviarie Manfredonia-Foggia e Lucera-Foggia, sulle quali possa transitare un veicolo bimodale (detto appunto Treno-Tram), abilitato alla circolazione anche su rete ferroviaria.

Nell’ambito di tale progetto integrato sono stati individuati una serie di interventi .

Il nodo intermodale di Foggia Stazione -L’obiettivo primario è quello di realizzare infrastrutture a favore dei passeggeri .

Il terminal Foggia stazione costituisce un intervento che, per la sua completezza, complessità e grado di maturità, può essere considerato prototipale in vista delle future ulteriori realizzazioni sul territorio regionale. Esso è destinato a servire tutte le principali tipologie di interscambio modale: ferro-ferro, ferro-gomma, gomma-gomma, sia a livello extraurbano che di interscambio tra ambito extraurbano e ambito urbano.

Il progetto prevede di integrare in un’unica piattaforma intermodale un terminal per i bus urbani, un terminal per i bus extraurbani, un raccordo per l’attestamento dei treni della linea Lucera-Foggia, spazi per il car-sharing e il bike-sharing/deposito biciclette. L’intervento consentirà di migliorare notevolmente l’efficienza dell’interscambio nella stazione di Foggia che, allo stato attuale, avviene sull’antistante piazza Vittorio Veneto senza alcuna infrastruttura di supporto.

Particolare attenzione è stata riservata all’attestamento della linea Lucera-Foggia che viene inglobata nell’autostazione, secondo un approccio progettuale che si vorrebbe estendere progressivamente ad altre realtà del territorio regionale. Su tratte relativamente brevi infatti, oltre ai tempi di viaggio, è indispensabile garantire integrazione tariffaria e ottimizzazione dell’interscambio per rendere competitivo il trasporto collettivo rispetto all’auto privata.

Nel caso della Lucera-Foggia, attraverso l’accordo tra il gestore dei servizi ferroviari e l’azienda di trasporto pubblico urbano, sono state realizzate di fatto le condizioni di integrazione tariffaria; il presente intervento completa il quadro intervenendo sull’ottimizzazione dell’interscambio attraverso un’adeguata progettazione degli spazi e delle funzioni.

L’intervento interessa l’area attualmente occupata dallo scalo merci di Foggia, dichiarato non più funzionale e in via di dismissione da parte di Rete Ferroviaria Italiana, situato ad ovest di Piazza Vittorio Veneto.



Figura 1. Area oggetto di intervento




Figura 2. Inquadramento dell’intervento






Figura 3. Planimetria generale del Terminal




Figura 4. Planimetria Opere stradali







Figura 5. Planimetria Terminal Intermodale e Aree di Fermata




Figura 6. Layout architettonico Terminal Intermodale










mercoledì 25 agosto 2010

“ARRESTIAMO” QUESTI POLITICANTI E LA LORO POLITICA. PER IL BENE DI FOGGIA.

Il direttore di TeleFoggia, in un suo editoriale, ricorda ai cittadini foggiani che restano pochi giorni fino a giovedì 9 settembre, data in cui il Consiglio comunale di Foggia si riunirà per discutere il pronunciamento della Corte dei Conti sul conto consuntivo 2008 e le proposte dell’Amministrazione comunale, al Consiglio ed alla Città, indispensabili per scongiurare il dissesto finanziario.

Il giornalista Troisi, chissà perché, parla in nome dei cittadini foggiani, spiega che nessuno d’essi vuole che l’amministrazione comunale pronunci il fallimento economico e finanziario del Comune. A suo dire, l’attuale Sindaco, Mongelli, è persona brava, capace, volenterosa e per nulla responsabile della situazione disastrata in cui si trova il Comune di Foggia, in quanto la stessa risale alle amministrazioni che lo precedettero. Troisi chiude il suo articolo con una segnalazione grave e precisa, anche se essa non riporta nomi e cognomi.

Vi sarebbero 'vecchi' amministratori foggiani che si sono arricchiti durante il loro mandato-ufficio, quando, in contemporanea s’assottigliavano (non sappiamo se in proporzione) le casse del Comune di Foggia e quelle delle sue società partecipate.

Insomma, queste parole potrebbero dare una mossa a qualche magistrato del Tribunale di Foggia, affinché disponga d’indagare sugli amministratori in carica presso il Comune della nostra Città, nei tempi in cui il denaro dei cittadini foggiani si dissolveva rapidamente.

Chissà, qualcuno di essi, la sua famiglia, s’è arricchito all’improvviso. Dovrebbe spiegare al suo giudice, ai concittadini, ai suoi elettori, come è successo.

Noi che preferiamo parlare della ragione della Politica, non aspetteremo certo che prenda velocità la macchina della Giustizia.

E’ assodato che il nostro Comune ha totalizzato alcune centinaia di milioni di euro di passività, proprio nel periodo in cui cominciarono a latitare nella nostra Città i servizi principali: manutenzione delle strade cittadine, segnaletica stradale, pulizia di strade e aiuole e giardini, cassoni per la raccolta dell’immondizia, ecc.

Che fine facevano gli euro che introitava il Comune? Nel mentre la politica del fare, qui a Foggia, a sinistra ed a destra, non funzionava, la maggioranza di governo locale dispendeva e la minoranza balbettava. C’è voluto il tempo di un decennio, di silenzi, affinché i foggiani, cominciassero a sentire, non certo dalla politica deputata, che il Comune di Foggia non pagava i suoi fornitori e che questi lo subissavano con precetti di pagamento, sequestri giudiziari dei beni cittadini, oltre a tagliargli le forniture d’elettricità, l’acqua, il gas. Governava la politica del silenzio. Eppure segnali importanti, anno dopo anno, arrivavano ai foggiani dalle classifiche nazionali sullo stato di qualità della vita urbana, dove la nostra Città veniva declassificata puntualmente, sino ad occupare gli ultimi posti del vivere con decenza. Ma poi interveniva il sindaco beneletto, con qualche amministratore ruffiano, a raccontare la solita favola di una città incompresa, sottovalutata, offesa. Mentre era la politica locale ad ‘offendere’ i cittadini foggiani. Eppure, mentre la situazione urbana ed economica di Foggia peggiorava, quella in generale dei politicanti foggiani migliorava.

Miglioravano i loro abiti (alcuni avevano iniziato a far politica con ‘le pezze sul di dietro’); s’allungavano le loro autovetture; veniva fuori la casa al mare e poi quella in montagna. Crebbe persino il numero delle amanti di qualche politico foggiano, che a quella locale aveva aggiunto la donna per il suo passatempo in quel di Roma. Populismo? Qualunquismo? O politica dei fregapopolo? Ad ognuno l’opinione che merita. Ma la politica di questo ultimo decennio, così come s’è svolta nella nostra Città, è di quelle senza arte né parte. Anzi è di gente che ha dimostrato con i danni causati a noi cittadini di non avere nulla a che fare con la Politica e nemmeno con quei gruppi di potere dai quali oggi essa sembra derivare. Qui siamo in presenza di quaquaraqua, senza testa, senza scrupoli, senza dignità. E farebbe molto male a tutti, oltre il dovuto, se tale gentaglia la facesse franca, gabbando la Legge e l’intero popolo di Foggia.

Arrestiamo questa marmaglia; fermiamo per un po’ d’anni la politica foggiana, fino a quando essa non tornerà ad avere la P iniziale maiuscola. Occorre controllare dettagliatamente il corso del denaro pubblico nel nostro Comune. Anche se per arrivare a ciò occorresse il coraggio di chiamare col suo nome una situazione amministrativa sostanzialmente già creata, il cui nome è: dissesto finanziario.

Di questa politica da bloccare, per il bene della nostra Città, fa parte senza scusanti d’occasione, lo stesso sindaco di Foggia, quello attualmente in carica. Che Mongelli sia un uomo bravo, generoso, non riguarda la sua responsabilità come soggetto politico. Egli è sempre il prodotto di quella politica, di quella parte politica che ha governato Foggia con un disfare tanto disastroso. Egli è espressione del partito politico che ha ancora in organico di potere gli uomini colpevoli dello

stato fallimentare del Comune di Foggia. E poi, ci sono i pesanti silenzi con cui egli ha nascosto alla cittadinanza lo stato delle finanze comunali, dal giorno in cui ci furono le consegne amministrative della Città, dal precedente sindaco a lui. Non una sua parola sulla situazione che egli prendeva in carico (di responsabilità). Ma questi sindaci, l’uscente Ciliberti e il subentrante Mongelli, appartenenti allo stesso partito politico, prima del giorno della consegna e dell’investitura, di per sé gravido di enormi responsabilità, si saranno incontrati nella direzione del comune partito d’appartenenza: Mongelli avrà chiesto a Ciliberti “Che situazione economica mi lasci? Vedi che io ho promesso ai foggiani di fare della loro Città la Capitale di Tutto. Che mi dici delle puntualizzazioni fatte dalla Corte dei Conti sui bilanci della tua amministrazione? Da oggi ne risponderò io.” Noi non sapremo mai che si dissero. Vedemmo Mongelli farsi carico della cassa comunale, pur sapendola piena di ingiunzioni giudiziarie di pagamento. Poi ancora il silenzio di Mongelli, poi qualche sua dichiarazione riguardante l’avere taciuto sui debiti del Comune, dei cittadini foggiani: “Per non preoccupare i miei elettori – fu la sua risposta.

Poi la messinscena dell’aiuto indirizzato al Governo nazionale affinché affidasse milionate di euro nelle mani di un’amministrazione, la sua, comunque di continuità partitica con la precedente. Poi la sua ‘missione’ in quel di Bari, presso la Corte dei Conti, risoltasi negativamente. Insomma, buon uomo a parte, ci sembra ci sia già tanto a proposito del Mongelli sindaco, perché anche la sua politica del fare, già sotto il controllo degli organi di controllo, venga sottoposta a indagine, doverosamente, o almeno al giudizio dei cittadini foggiani. gma

venerdì 20 agosto 2010

GIORGIO BOCCA.doc


Giorgio Bocca è un giornalista professionista. Egli forse è il più letto tra gli articolisti. Certamente non è il più amato dal pubblico dei lettori, il che, secondo noi, è anche un valore, dovuto al suo modo di fare giornalismo. Analizzatore acuto ed originale dei fatti politici italiani, egli adopera un linguaggio essenziale e preciso, privo di ridondanze e di preziosismi. Va diritto alla definizione del fatto in analisi, usando termini precisi ed inequivocabili, perché egli sa quanto il nostro linguaggio si presti alle manipolazioni ed ai travisamenti, studiati sul filo del plurimo significato delle parole. Quindi, le sue opinioni quasi sempre condensano concetti inequivocabili e indiscutibili, affermati sui valori precisi del vivere sociale.

Evidente è la sua preoccupazione per i giovani, ai quali la politica spesso lascia eredità da rinuncia e cruciverba da comporre, ad esempio: quello della globalizzazione, quello della costituzione italiana, la mafia, il federalismo, quello d’una politica italiana affatto etica, d’un sistema di governo della res pubblica italiana aperto alla ruberia, la preoccupazione della pressione sulla libera società ad opera dei sistemi di potere legati al solo interesse finanziario o peggio ancora al puro potere (leggi massoneria deviata).

Alcuni parlano di lui come un feroce opinionista politico. Pure essendo tra coloro che non lo amano, riteniamo che la sua ferma coerenza tra intelletto e scrittura, il suo professionismo di giornalista, non vadano confusi con la ferocità. La parola, o anche la scrittura, quando sono feroci, non hanno più legame con la ragione, bensì con l’animosità scriteriata, arrogante. Neppure al Giorgio Bocca più recente, ci sentiamo di dare dell’opinionista feroce e scriteriato. Anche quando dai suoi scritti, ha iniziato a fare trapelare una certa reazione, diciamo d’orrore, di forte delusione, per il modo insensibile ed indifferente con cui la società lasciava passare una politica attuale, sempre meno arte e sempre più affare. Forse i suoi lunghi anni di mestiere gli hanno fatto temere che fosse poco ascoltato, che i suoi scritti fossero poco comprensibili. Certo egli ha ritenuto spesso di dover ricorrere ad un linguaggio altiero, forte, per contrastare e fustigare l’avanzare di una politica ormai di solo potere e di esclusivo affarismo. Non è stato questo il migliore Bocca. Egli è sempre rimasto il giornalista vero, credibile; anche se un po’ più opinabile. Il suo verbo s’è spostato sull’indignazione, sull’auspicio veemente di un ritorno della società, non solo quella italiana, ai principi della democrazia popolare, non più malandata a causa del globalismo di mercato oppure di un’economia crudele.

Perciò siamo stati felici quando è stata pubblicata, sul quotidiano ‘la Repubblica’ del 18 agosto scorso, una intervista condotta da Antonio Gnoli, nella ricorrenza dei 90 anni d’età di Giorgio Bocca (nato a Cuneo, il18 agosto 1920). Essa ci ha restituito il vero giornalista, l’effettivo pensiero, di un eccelso Bocca, come noi lo ricordiamo, da quando cooperò con Scalfari alla fondazione del quotidiano ‘la Repubblica’. Riportiamo l’intera intervista di Antonio Gnoli, alla quale facciamo seguire i nostri auguri per Giorgio Bocca, di ancora tanti anni di servizio. gma

Quante cose ci sono in quest' uomo che ha conservato lucidità di ragionamento, amarezza, indignazione per il modo in cui le cose sono andate a finire e quel tanto di nostalgia che nel nostro lungo incontro torna come una donna che non si riesce a dimenticare. Siamo più fratelli o coltelli? «Nei momenti difficili, quando tutto sembra perduto, l'italiano ritrova la solidarietà e la partecipazione alla vita civile. Siamo un popolo che riscopre il valore nell' eccezione. Mettilo nella normalità ed è il peggiore della terra». Perché? «Abbiamo forse una soglia dell'etica molto alta. Io ho avuto la fortuna di scoprirla grazie all' impegno partigiano e al Partito d'Azione. Era l'epoca dei condannati a morte della resistenza. Gente che scriveva alle famiglie dicendo: "domani mi fucilano, ma state tranquilli ce la faremo a realizzare un'Italia migliore". È incredibile cosa veniva fuori da quelle esistenze». Cos' è per lei l'etica? «Semplice: non rubare, non mentire, insomma essere onesti. Sono virtù evangeliche da applicare nello studio, nella professione, nella vita». Lei ha studiato giurisprudenza. «Non l'ho finita, mi mancavano tre esami». Voleva fare l'avvocato? «Era una scelta provinciale. Ma cosa avrebbe dovuto fare uno di Cuneo? Poi arrivò la guerra partigiana che scompigliò i progetti». C'era il fascismo. «A Cuneo non fu una cosa feroce. Sembrava di vivere in un piccolo mondo di cartapesta e la sensazione che provai nel momento in cui mi si offrì l'opportunità di uscire da questa Italia finta fu straordinaria». Come maturò la sua decisione? «Fu un processo lento che iniziò con il corso del 1939 di allievo ufficiale alpino. Lì incontrai i primi intellettuali antifascisti e scoprii improvvisamente il significato delle parole democrazia e libertà». Quella democrazia alla quale aspirava si è realizzata? «Solo in parte. Se guardo l'Italia di oggi, mi appare irriconoscibile rispetto a quella che uscì dai valori della resistenza». Non c' è un po' di retorica? «La memoria si serve anche di un pizzico di retorica. Arrivo a dire che quella Italia era povera e onesta perché c' era poco da rubare. L' Italia del capitalismo avanzato e dei giochi della finanza è una fabbrica di beni, un emporio di mercanzie che in molti vogliono saccheggiare». Trova detestabile il consumismo? «Nella maniera più assoluta. La provincia e la guerra partigiana mi hanno insegnato ad essere essenziale». Anche la sua prosa giornalistica è asciutta, essenziale appunto. «Il giornalismo è quello che vedi, ma anche quello che hai già nella testa». Perché ha scelto questo mestiere: per vocazione, per caso, per necessità? «Fu vocazione totale. Ma nel senso peggiore. Cioè di chi non sa fare nulla di diverso. Quindi fu anche una necessità e il caso, infine, ha voluto che io diventassi giornalista». Quanto conta il caso nella vita delle persone? «Il caso fortunato ti arriva due o tre volte nella vita e devi essere pronto a riconoscerlo. Altrimenti starai fino alla fine dei tuoi giorni a pentirti. Io lo incontrai con il giornalismo e il Partito d' Azione. Se non coglievo l'occasione sarei rimasto a Cuneo tutta la vita, a giocare a bigliardo e a fare, se mi andava bene, l'avvocato». Cos' è scrivere per lei? «Eseguire un compito senza orpelli». Chi sono gli scrittori che le piacciono? «Hemingway, Calvino, Fenoglio. Non mi piace Pavese». Ha mai desiderato scrivere un romanzo? «Non ne sarei capace. Ho anche, in un paio di occasioni, provato a scriverne, ma alla seconda pagina mollavo. Non capisco la finzione. Per quanto io possa aver praticato una scrittura saggistica, vicina alla forma del romanzo, non sono mai riuscito a entrare nel genere». Scrivere è raccontare quello che si vede? «Sì, non credo all' inventato». Non prova nessuna attrazione per l'invisibile? «Se resta tale no». Anche se l'invisibile prende il nome di Dio? «Per il mio spiccato senso pratico mi ha sempre infastidito questo Dio nascosto che non si fa vedere. Ma fatti vedere! Fatti riconoscere! Mi verrebbe da dirgli». Un credente le replicherebbe che è un problema di fede. «La fede è un sentimento poco razionale e difficilmente difendibile con argomenti fondati. Quando vedo nell'universo rotolare senza alcun senso dei globi, la disperazione mi avvinghia. E mi chiedo: "ma che razza di mondi ha creato questo Dio?" E non hai nessuna risposta convincente davanti alla scoperta che solo da noi c'è vita, mentre in tutto il resto dell'universo c'è solo ammoniaca e metano». Che definizione darebbe di sé? «Oscillo tra alcuni aspetti di me che ritengo nobili e altri abitudinari e provinciali». Concretamente cosa significa? «Sono uno che quando c'era da fare la guerra partigiana l'ha fatta. Ma sono anche attaccato ai soldi e al mangiar bene. Sono abitato da piccole pigrizie mentali. Insomma c'è in me un lato grigio col quale convivo». Non è colorabile? «Direi di no, visto che non ci sono riuscito in tutti questi anni». Ma questo attaccamento ai soldi è un po' curioso in una persona che non si è mai lasciata condizionare da niente. Non trova? «Per i soldi sono semplicemente prudente. Però vedo anch'io la contraddizione: sono un mix di alte qualità e di mediocrità». Abbiamo tutti qualcosa di mediocre. «Ma io parlo per me. Non ho scelto di essere eroico quando l' occasione si è presentata. Sono stato costretto a comportarmi da eroe. Voglio dire che l' occupazione tedesca è stata per me una manna, mi ha obbligato ad essere coraggioso». È stata dura la guerra partigiana? «Dura e insieme una straordinaria e meravigliosa vacanza». Che cosa le ha insegnato? «Ho capito che ero negato al comando degli uomini. Ho fatto molte missioni rischiose. Alcune le ho dirette. Ma è stata una grande sofferenza sapere che da una tua decisione dipendeva la vita di altre persone». Cos' è che non le piace del comando? «La finzione e i rituali che il potere innesca. Sono sempre fuggito dal potere, dai suoi condizionamenti, dai suoi compromessi. Meglio la libertà dai vincoli». Quanta anarchia c'è in questa affermazione? «Molta. L' intollerabilità alla disciplina era in me un fatto spontaneo. Il che non mi ha impedito, da buon piemontese, di fare sempre il mio dovere, anche nelle situazioni più difficili». Ha mai provato il sentimento della paura? «Tantissime volte. Sia nella guerra partigiana che in quelle in cui andavo come inviato. Ricordo che durante la "Guerra dei sei giorni", nel bel mezzo di una tregua, ci spingemmo con una camionetta sino al Canale di Suez. Dormivamo sulla sabbia in un freddo terrificante, quando gli egiziani, dall' altra parte del Canale, cominciarono a spararci colpi da mortaio. Non è stato piacevole». Cosa prova oggi davanti a quegli episodi? «Mi fanno ripensare soprattutto alla mia immoralità. Avevo una moglie e una figlia. Ma per il giornalismo ero disposto a piantare tutto e andare via per mesi. Rischiando la pelle, spesso inutilmente. Quando ero a Saigon, uscivo la sera. Il portinaio dell' albergo cercava di dissuadermi: "non esca, o perlomeno non si porti molti soldi, in giro ci sono solo ladri, puttane e assassini" diceva. Ma io sono sempre stato un uomo di rischio e il gioco per me era di non avere paura della paura». Lei ha raccontato questo paese in lungo e in largo. Con speranza, delusione, rabbia. Si può dire che con gli anni Sessanta comincia la grande trasformazione? «Per me l' Italiaè cambiata nel momento in cui sono diventato vecchio. Prima di allora ho sempre coltivato la speranza che questo paese attraverso i suoi uomini migliori ce la potesse fare. Ora ho l'impressione che siamo finiti nella merda. Gente che ruba, gente che sta al governo ed è intrinseca al potere mafioso. I romanzi spesso raccontano di dannati che alla fine si redimono. Qui non vedo nessuna redenzione». La causa? «Il fattore principale è l'abbondanza. C'è ancora molto da rubare». La scopriamo pauperista? «Non sono religioso, ma come insegna il Vangelo la povertà non è un difetto. Un po' di castità e di risparmio farebbe bene alla nostra società. E anche un po' meno televisione, che ha contribuito a questa mutazione antropologica, per cui gli italiani sono diventati irriconoscibili». Lei guarda la televisione? «Purtroppo sì, la sera mi metto davanti allo schermo». Si indigna? «No, provo un senso di schifo. Se fossi più giovane troverei le ragioni di combattere e di sperare nuovamente. Ma sono vecchio e mi sento molto rassegnato». Ma cos'è questa vecchiaia che la incatena? «È non avere più la forza necessaria. Il che per uno cheè stato sempre molto attivo è una bella seccatura». Tutto qui? «È anche il prosciugarsi dei desideri. Quando ero giovane prima di addormentarmi conquistavo sempre un impero. Adesso al massimo conquisto un po' di sonno». Sogna? «No, almeno non ricordo e quelle poche volte che accade sono sogni strani, quasi degli incubi. Ma non mi preoccupo più di tanto. La sola cosa che rimpiango è l' assenza del desiderio. Non sono più giovane, non ho appetito, le donne non mi interessano più. Capisce? Tutto è diventato molto noioso». Però scrive. «È vero, almeno da quel lato mi è andata bene. Non mi sono rincoglionito». E Dio - per tornare sull'argomento - lo ha proprio escluso del tutto? «È lui che ha escluso me. Capisco il bisogno di cercarlo. Ma non capisco tutta la fatica che ci vuole. Sono amico di alcuni teologi, ma non mi hanno convinto della necessità di cercare questo Dio nascosto. Ci sarà anche, ma se devo fare una fatica così grande per trovarlo, ne faccio a meno». Cosa prevede per i suoi novant'anni? «Ho un po' paura dei festeggiamenti. Li trovo ridicoli. E poi non sai mai se quello che ti accade intorno sia sincero oppure no. Di cosa dovrei rallegrarmi? Sono un giornalista al tramonto, il cui mestiere - per come lo svolgevo - è morto. Non avrei del resto più la forza per giustificarlo». Senza retorica, lei rimane un grande giornalista. «Sa, il giornalismo non è come la filosofia o la religione, alle quali ti puoi attaccare anche quando sei sul letto di morte. Comunque meglio che se mi dicessero: sei stato un fesso». Lei è davvero così burbero e di poche parole come pensa larga parte di chi la conosce? «Nell' intimo, diciamo affettivamente, mi sento un napoletano. Se appaio burbero e di poche parole è perché a volte mi sento a disagio». Un timido? «Diciamo un piemontese dal carattere un po' difficile». - ANTONIO GNOLI

martedì 17 agosto 2010

LA POLITICA SECONDO GLI EDITORIALISTI. La politica dei nostri tempi.

Non è roba da poco lo spazio di prima pagina che i giornali riservano all’editoriale. Meno che mai quando l’editoriale è di un quotidiano straletto, come ad esempio il Corriere della Sera. In questi spazi scrivono opinionisti conosciuti e vi trattano argomenti che sono all’ordine del giorno. Qui, i lettori dovrebbero trovare concetti spesso illuminati ed illuminanti per un pensiero desideroso di conoscenze. Invece succede spesso che essi funzionino da raccoglitori di robaccia, proveniente da presunti, improvvisati pensatori, i quali ci provano a mettersi in mostra, per diventare magari dei novelli Bocca, gli Eco, i Galli Della Loggia della situazione. Tentativi improbabili, riteniamo, giacché ultimamente succede che persino questi intellettuali famosi mostrano nei loro scritti dei pensieri forzati, poco brillanti, buttati là per esaurire uno spazio contrattualizzato e non per accendere la coscienza dei lettori su argomenti d’attualità e da dibattere.

Certo, essendo la politica attuale oggetto di una discussione ripetuta, ridottasi ai minimi termini, posizionata su un denominatore basso, generalizzato e intermittente, non deve meravigliarci che essa abbia stancato persino le menti vivaci e originali degli intellettuali. Insomma, anche la politica degli editorialisti è oggi, solitamente brutta, stanca e fiaccante. Riassumiamo di seguito lo scritto, di un bravo editorialista, che ci offre alcuni spunti interessanti sull’idea che hanno i cittadini italiani circa l’unità nazionale.

Ernesto Galli Della Loggia

L’idea della politica che manca all’ItaliaNostalgia di Cavour.

Corriere della Sera – Martedì 10 agosto 2010

Oggi ricorre il duecentesimo anniversario della nascita di Cavour, che è l’artefice non unico ma massimo di un’Italia unita, dalle Alpi alla Sicilia. Eppure in Italia Cavour è per nulla popolare. Perché? Spiegarlo fa probabilmente capire molte cose sul Paese che siamo. Secondo Galli Della Loggia, la scarsa popolarità di Cavour è dovuta alla poca conoscenza che gli italiani hanno del Risorgimento e della nazione Italia. Questi eventi fondanti sono oggetto di uno studio superficiale a Scuola. Essi neppure hanno trovato degna celebrazione in opere letterarie o cinematografiche di rilievo. Ciò a causa di una cultura politica dominante in Italia, sempre critica verso il risorgimento e la soluzione cavouriana. E’ accaduto per opera del cattolicesimo, poi durante l’azionismo ed il fascismo, poi a causa dell’ideologia del comunismo e del socialismo italiani. Ma su questo senso antirisorgimentale e poco incline all’idea di un’Italia unitaria, è molto probabile che abbia influito direttamente il carattere stesso del popolo italiano, quasi reattivo all’idea del dovere collettivo subordinato all’istituzione Stato. Gli italiani sono stati sempre caratterizzati da una forma di anarchismo, avverso allo stato. L’impopolarità del Cavour sarebbe quindi legata alla stessa impopolarità che gli italiani hanno sempre covato contro lo stato italiano e contro una politica fondata su leggi e regolamenti scritti, certamente dettagliati e precisi, rispetto ad usi e costumi più fumosi e certamente meglio adattabili agli interessi privati dei potentati economici nazionali.

L’idea espressa da Ernesto Galli Della Loggia, circa il perdurare negli italiani di una coscienza incompiuta riguardo uno Stato italiano unitario, è indubbiamente coraggiosa, anche se non originale. Comunque riteniamo che l’acerbità di coscienza che gli italiani mantengono dopo ben duecento anni, sulla realtà d’uno Stato compiuto e unitario come nazione, nella quale confluivano e si pacificavano i sentimenti nativi di differenti popolazioni territoriali, non trovi esauriente spiegazione nello scarso esercizio scolastico o nelle insufficienti celebrazioni circa il nostro risorgimento o la figura del Cavour. Ciò mortificherebbe i milioni di italiani che hanno dato la loro vita, nell’identico sacrificio, senza differenza d’istruzione e d’educazione, soltanto per patriottismo, per difendere la bandiera italiana e la nazione Italia dal nemico che le minacciava. Come troviamo in questi morti un difetto di coscienza unitaria circa il sentirsi tutti italiani. Forse è nella forma della politica del nostro Paese e nella sostanza con cui essa ha imperato, che sono ravvisabili i motivi che evidenziano ancora oggi una disparità nel sentire la cittadinanza italiana. Il Nord e i nordisti italiani; il Centro dell’Italia; il Sud ed i suoi terroni. Sono ancora queste le miserevoli parole con cui s’esprime ancor oggi la miserevole politica nel nostro Paese. Una politica che pur dicendosi nazionale, dopo i due secoli trascorsi dall’istituzione della nazione Italia, non ancora riesce a realizzare nei vari territori che la compongono, delle condizioni di vita sociale paritarie. E’ espressivo di una politica bizzarra il fatto che ci siano politicanti del nord che ancora parlano dei connazionali del sud come gente incapace di formarsi ad una coscienza statale, siccome essi sono sfaticati, se non addirittura ladroni, mafiosi, criminali. Di fronte ad un irredentismo politico nordista, tanto volgare, che tiene ancora oggi, il livello della politica nazionale annodato ai pali d’una mente paludosa, lo stesso Federalismo dei leghisti italiani, puzza di separatismo nei confronti degli italiani del sud. Dio salvi l’Italia? gma

mercoledì 11 agosto 2010

LA POLITICA CHE NON C'E' PIU'.

La politica del fare, in nome e per conto del popolo italiano, per il benessere della nostra società, non c’è più. Tanto meno nella nostra città, nella nostra provincia. Su essa è prevalso l’interesse economico dei gruppi di pressione che dominano l’economia globale. Sono essi che gestiscono e controllano ‘materialmente’ lo sviluppo della società civile. Ecco, quindi, una società, quella attuale, che in realtà, per leggerezza e sua distrazione, è meno civile rispetto al passato. Una società che ignora la politica, che partecipa nei minimi termini all’elezione dei suoi rappresentanti, in tutti i livelli istituzionali del governo della cosa pubblica. Sentiamo dire d’una politica che allontana, a causa delle sue amenità, il popolo dalla pratica del governo. Chi può negare che ciò avviene volutamente; vale a dire che questa sistemazione della politica è il risultato studiato da un sistema di potere estraneo al processo di democrazia che fino alla prima Repubblica ha governato il nostro Paese.

Nella nostra città, l’ultimo sopravvissuto di quest’epoca di democrazia nazionale è Giovanni Mongiello. Vogliamo dedicargli qualche breve periodo, lungi dall’avviare la celebrazione di quest’uomo politico, nato e formatosi dentro quella politica senza aggettivi, che noi desideriamo e rimpiangiamo. Perché con ciò siamo convinti di centrare l’argomento di quella politica ricca di democrazia e di diplomazia, che ormai non c’è più. Per essere precisi, ricorriamo a quanto dice di lui l’Enciclopedia Libera ‘Wikipedia’.

Giovanni Mongiello (Foggia, 1º maggio 1942) è un politico italiano. Laureato in Economia e Commercio e Giurisprudenza, si è iscritto alla Democrazia Cristiana a Foggia fin dal 1960. Ha ricoperto diversi incarichi politici e amministrativi: nel 1980 è stato presidente della USL di Foggia, nel 1981 è divenuto Sindaco di Foggia, nel 1983 è stato eletto per la prima volta Deputato al Parlamento nelle liste della DC, nella circoscrizione Bari-Foggia, rieletto nel 1987, nel 1989 viene chiamato a far parte quale Sottosegretario di Stato nel Governo Andreotti VI, riconfermato nel 1990 nel Governo Andreotti VII. Nel 1992 è stato rieletto Deputato al Parlamento.

Nel Governo Prodi II è sottosegretario al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

Nel 1994 viene eletto Senatore della Repubblica nel collegio Foggia-Gargano con il Polo del Buon Governo guidato da Silvio Berlusconi. Aderisce al gruppo del Centro Cristiano Democratico e viene nominato Sottosegretario di Stato nel Governo Berlusconi I.

Nel 1995 si iscrive al CDU di Rocco Buttiglione divenendo Vice segretario nazionale del partito. Nel 2001 è rieletto Deputato al Parlamento nel collegio di Modugno (BA).

Nel 2004, approda alla Democrazia Cristiana - Scudo Crociato - Libertas di Angelo Sandri, di cui ricopre la carica di presidente per qualche mese tra il 2004 e il 2005.

Nel 2005 fonda il movimento dei Democratici Cristiani Uniti, basato soprattutto in Puglia e improntato ai valori del cristianesimo democratico.

I cittadini foggiani devono essere orgogliosi di questo emerito concittadino, sia per le notevoli iniziative che egli ha realizzato in nome dello sviluppo civile di Foggia, sia per il suo profilo d’uomo. Giovanni Mongiello è persona di grandi sentimenti, dotato di un’attenta conoscenza che lo educa ad una ragione obiettiva ed a comportamenti giusti, che ne fanno un abile diplomatico. Pure essendo egli il vero politico di una politica vera, che non c’è più, ne dobbiamo apprezzare lo spirito battagliero con cui si batte ancora per lo sviluppo di Foggia. Giorni fa, nell’editoriale televisivo che egli ‘tiene’ giornalmente a TeleFoggia, nel commemorare la scomparsa di un grande uomo politico italiano, l’emerito Aldo Moro, Giovanni Mongiello ha preso lo spunto per parlare della Politica sana, degli uomini politici che v’appartennero e ne furono parte onesta e dignitosa. Nulla a che vedere con l’attuale politica e con i politicanti moderni. Nelle parole di Mongiello c’è stata la conferma che la democrazia politica non c’è più, che non vi sono più funzionari eletti dal popolo che amministrano la cosa pubblica con il rispetto e l’onestà dovuti. Avaro rimase il paragone con la situazione attuale in cui versa il Comune di Foggia, proprio a causa degli amministratori insani che una politica generalmente insana mise al governo della nostra Città. Carissimo Mongiello, le tue ramanzine sono apprezzabili, lo è altrettanto la tua fede in un popolo che si ravvede. Noi riteniamo che la politica in corso sia il prodotto diretto della società corrente, interessata al potere, prona, ancor più che nel passato, verso chiunque dimostra d’avere potere e favori da passarle. La Politica del fare in favore del popolo è oggi fuori corso. Non serve disperarsi per ciò o pensare ad improbabili rivoluzioni popolari. Fino al ricorso, all’inversione di tendenza che da sempre rimette in equilibrio l’esistenza del fare umano. gma

lunedì 2 agosto 2010

UNA POLITICA SENZA AGGETTIVI

INVECE... LA POLITICA CORROTTA.

La politica, come sistema di governo e di gestione delle risorse pubbliche, è considerata dal popolo come la massima espressione della sovranità popolare. Per ciò tutti la pretendono giusta, democratica, efficiente, come si vuole che sia la società.
Questa rappresentazione generale e semplicistica della politica, oscillante tra il potere dello stato ed i servizi da valere alla società, è spesso trattata con ipocrisia, per non incidere sulla genericità di una opinione tanto popolare. Fa comodo a chi ha in mano il potere effettivo di una nazione, lasciare credere che siano le qualità della classe politica governante a determinare lo stato economico e il benessere sociale della popolazione. E quando le attese della società non si realizzano? E’ interamente colpa della politica.
Tra le condizioni di una cattiva pratica dell'amministrazione statale, la peggiore è forse quella della politica corrotta. Una situazione, questa, da denunciare pubblicamente, da processarsi sommariamente, al fine di liberare il sistema dal guasto, senza tuttavia spingere in direzione della corruzione e dei corruttori.
In realtà, tra lo scenario vasto e complesso della politica, si nasconde il potere dei gruppi economici e finanziari di una nazione, di un territorio, di un’area geografica. Là si nascondono i manovratori diretti del potere originale ed influente, quello di chi gestisce, orienta, distribuisce i proventi della ricchezza nazionale e internazionale.
Dietro la politica e l’affare società si nasconde, quindi, il potere economico e finanziario di gruppi, il cui interesse finale è quello di realizzare per sé profitti, controllando la gestione delle risorse pubbliche.
Questo sistema di potere funziona meglio all’interno di una società democratica, sovrana, dotata di un sistema costituzionale e legislativo che ha come idea di base l’equilibrio tra i diversi poteri. Questo perché le società che attuano ordinatamente una politica democratica, sviluppano meglio la crescita economica e sociale, secondo il criterio del mercantismo e dell’arricchimento.
All’interno di un tale tipo di società, il potere economico e finanziario, senza darlo a vedere alla popolazione, controlla il sistema politico pubblico e, standosene defilato dalla politica, gestisce i proventi dell’economia del paese, arricchendosi.
Capitalismo, consumismo, mercantismo, alta finanza? Dal denaro corruttore scaturiscono i problemi sociali: dal denaro facile, alle speculazioni, sino alla corruzione dell’apparato dei governanti.
Fino agli anni novanta ed alla cosiddetta Tangentopoli, il potere finanziario ed economico italiano s’è servito della forza corruttrice del denaro per controllare il potere politico, quello dei partiti di governo. Ci riferiamo al finanziamento illecito ai partiti, a ministri, deputati, senatori italiani, senza distinzione tra appartenenti alla maggioranza o alla minoranza di governo. Il fenomeno della corruttela imperava non solo a livello di governo centrale; esso funzionava in ogni livello d’istituzione: regione, provincia, comune. Strumento della corruzione era la tangente, una sorta di ‘tassa’ richiesta nella concessione degli appalti per lavori pubblici, oramai ridotti ad occasioni per il malaffare. In questo periodo, sino a Tangentopoli, il potere finanziario, come accennavamo, controllava il nostro sistema di governo, rimanendone fuori. Esso finanziava i partiti allo scopo di guadagnarsi una zona grigia, in cui l’azione dello Stato rimanesse meno efficiente e trasparente. Il flusso di questo denaro divenne così forte e diffuso, peraltro ciò risulta dalla letteratura di commento a Tangentopoli, da assumere e corrompere in poco tempo tutto il sistema politico italiano.
Se la corruttela in origine era finalizzata alla raccolta di danaro, sempre illecita, necessaria per finanziare l’attività dei partiti, poi essa fu strumento degli appetiti personali di uomini politici e dei loro gruppi di lavoro. Comprensibilmente questa corruttela, da mezzo di controllo e di pressione usato dai grandi gruppi economici sulla politica, si ribaltò in mezzo di ricatto da parte della politica italiana in danno delle lobby. Strutturalmente la cosa non funzionava più secondo gli intenti originari dei lobbisti. Molto probabilmente il potentato finanziario ed economico italiano, costituito non solo da gruppi nazionali, decise di reagire per sottrarsi ad una politica insaziabile.
Riteniamo che da questo stato di cose venne fuori Tangentopoli. Solo un forte potere economico, finanziario, con la sua denuncia, poteva manovrare la magistratura italiana contro il sistema dei partiti e della politica nazionale. Tangentopoli, non fu certamente, come risulta da certa letteratura sulla materia, l’atto spontaneo e dovuto di un potere statale, efficiente e ligio ai suoi compiti istituzionali, contro il fenomeno di un governo corrotto. Fu una parte della magistratura, furono pochi magistrati di Milano, che muovendo da precise denunce d’ignoti, che erano comunque attori d’alto profilo, presero d’assalto in maniera programmata (da grandi cervelli, non certo quello di magistrati) ed in modo scientifico la politica che governava il nostro Paese. Partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il PLI, il PRI sparirono o furono fortemente ridimensionati, tanto da far parlare di un passaggio ad una Seconda Repubblica.
Ricordiamo velocemente, per pura menzione, come molti magistrati di quella tornata di giustizialismo, invece che essere promossi in carriera, all’interno del loro ufficio, si trasferirono essi stessi in politica in nome dell’affermazione della legalità. E sopravvenne una nuova Politica, nel nome di una seconda (rinnovata) Repubblica, che gli elettori vollero basata sul sistema maggioritario. Ne venne fuori il bipolarismo, una semplificazione della politica italiana, fino ad allora dispersa in troppi partiti, che avrebbe dovuto restituire all’azione di governo funzionalità, coerenza.
Era il momento giusto, affinché la seconda repubblica attivasse in Italia un sistema di governo moderno, in linea con la prospettiva politica dell’Unione Europea, capace d’adeguare le risorse produttive del paese Italia ad un mercato orientato verso la globalizzazione. Era momento che la politica introducesse riforme adeguate, per far funzionare bene la macchina dello Stato, per rendere finalmente l’azione dello Stato efficiente e trasparente, per risolvere il problema della corruzione.
Invece il potentato economico e finanziario italiano, raggiunto lo scopo di azzerare la preponderanza della vecchia politica, aveva già studiato come controllare direttamente il nuovo sistema di governo, facendo eleggere i suoi uomini di fiducia all’interno dei due poli ai quali era stato ridotto il sistema di governo italiano.
Il lobbismo entrava direttamente nella politica italiana. Per incidere sulle istituzioni legislative, in difesa degli interessi delle grandi aziende italiane ed internazionali. Il che non significava necessariamente una politica di corruzione, d’imbrogli, di loschi affari. Tuttavia è innegabile che la politica italiana, con la seconda repubblica, assunse una dimensione diversa, tutta da comprendere, specie da parte del popolo italiano, la cui sovranità divenne cosa diversa rispetto ai tempi passati: sia per il fatto di non eleggere nominativamente i suoi rappresentanti, sia per il fatto che questi, essendo nominati dal partito, rappresentavano e tutelavano innanzitutto gli interessi di posizione delle lobby di potere di cui erano espressione.
Insomma, lo stato attuale della politica italiana, lascia pensare che il popolo, senza esserne consapevole, ha ceduto una parte della propria sovranità ai gruppi affaristici, senza mai ottenere una serie di leggi garantiste della trasparenza dell’azione di governo e della pubblica amministrazione. Tanto è vero che ancora oggi, la corruzione della politica rimbalza dai ministri della repubblica italiana ed arriva sino ai consiglieri dei comuni italiani. Anche questa politica non porta da nessuna parte, considerato che essa non è potere d’espressione della società, né è al servizio delle necessità collettive. Tutto questo vale una politica senza aggettivazioni utilitaristiche, morali o etiche. gma