venerdì 20 agosto 2010

GIORGIO BOCCA.doc


Giorgio Bocca è un giornalista professionista. Egli forse è il più letto tra gli articolisti. Certamente non è il più amato dal pubblico dei lettori, il che, secondo noi, è anche un valore, dovuto al suo modo di fare giornalismo. Analizzatore acuto ed originale dei fatti politici italiani, egli adopera un linguaggio essenziale e preciso, privo di ridondanze e di preziosismi. Va diritto alla definizione del fatto in analisi, usando termini precisi ed inequivocabili, perché egli sa quanto il nostro linguaggio si presti alle manipolazioni ed ai travisamenti, studiati sul filo del plurimo significato delle parole. Quindi, le sue opinioni quasi sempre condensano concetti inequivocabili e indiscutibili, affermati sui valori precisi del vivere sociale.

Evidente è la sua preoccupazione per i giovani, ai quali la politica spesso lascia eredità da rinuncia e cruciverba da comporre, ad esempio: quello della globalizzazione, quello della costituzione italiana, la mafia, il federalismo, quello d’una politica italiana affatto etica, d’un sistema di governo della res pubblica italiana aperto alla ruberia, la preoccupazione della pressione sulla libera società ad opera dei sistemi di potere legati al solo interesse finanziario o peggio ancora al puro potere (leggi massoneria deviata).

Alcuni parlano di lui come un feroce opinionista politico. Pure essendo tra coloro che non lo amano, riteniamo che la sua ferma coerenza tra intelletto e scrittura, il suo professionismo di giornalista, non vadano confusi con la ferocità. La parola, o anche la scrittura, quando sono feroci, non hanno più legame con la ragione, bensì con l’animosità scriteriata, arrogante. Neppure al Giorgio Bocca più recente, ci sentiamo di dare dell’opinionista feroce e scriteriato. Anche quando dai suoi scritti, ha iniziato a fare trapelare una certa reazione, diciamo d’orrore, di forte delusione, per il modo insensibile ed indifferente con cui la società lasciava passare una politica attuale, sempre meno arte e sempre più affare. Forse i suoi lunghi anni di mestiere gli hanno fatto temere che fosse poco ascoltato, che i suoi scritti fossero poco comprensibili. Certo egli ha ritenuto spesso di dover ricorrere ad un linguaggio altiero, forte, per contrastare e fustigare l’avanzare di una politica ormai di solo potere e di esclusivo affarismo. Non è stato questo il migliore Bocca. Egli è sempre rimasto il giornalista vero, credibile; anche se un po’ più opinabile. Il suo verbo s’è spostato sull’indignazione, sull’auspicio veemente di un ritorno della società, non solo quella italiana, ai principi della democrazia popolare, non più malandata a causa del globalismo di mercato oppure di un’economia crudele.

Perciò siamo stati felici quando è stata pubblicata, sul quotidiano ‘la Repubblica’ del 18 agosto scorso, una intervista condotta da Antonio Gnoli, nella ricorrenza dei 90 anni d’età di Giorgio Bocca (nato a Cuneo, il18 agosto 1920). Essa ci ha restituito il vero giornalista, l’effettivo pensiero, di un eccelso Bocca, come noi lo ricordiamo, da quando cooperò con Scalfari alla fondazione del quotidiano ‘la Repubblica’. Riportiamo l’intera intervista di Antonio Gnoli, alla quale facciamo seguire i nostri auguri per Giorgio Bocca, di ancora tanti anni di servizio. gma

Quante cose ci sono in quest' uomo che ha conservato lucidità di ragionamento, amarezza, indignazione per il modo in cui le cose sono andate a finire e quel tanto di nostalgia che nel nostro lungo incontro torna come una donna che non si riesce a dimenticare. Siamo più fratelli o coltelli? «Nei momenti difficili, quando tutto sembra perduto, l'italiano ritrova la solidarietà e la partecipazione alla vita civile. Siamo un popolo che riscopre il valore nell' eccezione. Mettilo nella normalità ed è il peggiore della terra». Perché? «Abbiamo forse una soglia dell'etica molto alta. Io ho avuto la fortuna di scoprirla grazie all' impegno partigiano e al Partito d'Azione. Era l'epoca dei condannati a morte della resistenza. Gente che scriveva alle famiglie dicendo: "domani mi fucilano, ma state tranquilli ce la faremo a realizzare un'Italia migliore". È incredibile cosa veniva fuori da quelle esistenze». Cos' è per lei l'etica? «Semplice: non rubare, non mentire, insomma essere onesti. Sono virtù evangeliche da applicare nello studio, nella professione, nella vita». Lei ha studiato giurisprudenza. «Non l'ho finita, mi mancavano tre esami». Voleva fare l'avvocato? «Era una scelta provinciale. Ma cosa avrebbe dovuto fare uno di Cuneo? Poi arrivò la guerra partigiana che scompigliò i progetti». C'era il fascismo. «A Cuneo non fu una cosa feroce. Sembrava di vivere in un piccolo mondo di cartapesta e la sensazione che provai nel momento in cui mi si offrì l'opportunità di uscire da questa Italia finta fu straordinaria». Come maturò la sua decisione? «Fu un processo lento che iniziò con il corso del 1939 di allievo ufficiale alpino. Lì incontrai i primi intellettuali antifascisti e scoprii improvvisamente il significato delle parole democrazia e libertà». Quella democrazia alla quale aspirava si è realizzata? «Solo in parte. Se guardo l'Italia di oggi, mi appare irriconoscibile rispetto a quella che uscì dai valori della resistenza». Non c' è un po' di retorica? «La memoria si serve anche di un pizzico di retorica. Arrivo a dire che quella Italia era povera e onesta perché c' era poco da rubare. L' Italia del capitalismo avanzato e dei giochi della finanza è una fabbrica di beni, un emporio di mercanzie che in molti vogliono saccheggiare». Trova detestabile il consumismo? «Nella maniera più assoluta. La provincia e la guerra partigiana mi hanno insegnato ad essere essenziale». Anche la sua prosa giornalistica è asciutta, essenziale appunto. «Il giornalismo è quello che vedi, ma anche quello che hai già nella testa». Perché ha scelto questo mestiere: per vocazione, per caso, per necessità? «Fu vocazione totale. Ma nel senso peggiore. Cioè di chi non sa fare nulla di diverso. Quindi fu anche una necessità e il caso, infine, ha voluto che io diventassi giornalista». Quanto conta il caso nella vita delle persone? «Il caso fortunato ti arriva due o tre volte nella vita e devi essere pronto a riconoscerlo. Altrimenti starai fino alla fine dei tuoi giorni a pentirti. Io lo incontrai con il giornalismo e il Partito d' Azione. Se non coglievo l'occasione sarei rimasto a Cuneo tutta la vita, a giocare a bigliardo e a fare, se mi andava bene, l'avvocato». Cos' è scrivere per lei? «Eseguire un compito senza orpelli». Chi sono gli scrittori che le piacciono? «Hemingway, Calvino, Fenoglio. Non mi piace Pavese». Ha mai desiderato scrivere un romanzo? «Non ne sarei capace. Ho anche, in un paio di occasioni, provato a scriverne, ma alla seconda pagina mollavo. Non capisco la finzione. Per quanto io possa aver praticato una scrittura saggistica, vicina alla forma del romanzo, non sono mai riuscito a entrare nel genere». Scrivere è raccontare quello che si vede? «Sì, non credo all' inventato». Non prova nessuna attrazione per l'invisibile? «Se resta tale no». Anche se l'invisibile prende il nome di Dio? «Per il mio spiccato senso pratico mi ha sempre infastidito questo Dio nascosto che non si fa vedere. Ma fatti vedere! Fatti riconoscere! Mi verrebbe da dirgli». Un credente le replicherebbe che è un problema di fede. «La fede è un sentimento poco razionale e difficilmente difendibile con argomenti fondati. Quando vedo nell'universo rotolare senza alcun senso dei globi, la disperazione mi avvinghia. E mi chiedo: "ma che razza di mondi ha creato questo Dio?" E non hai nessuna risposta convincente davanti alla scoperta che solo da noi c'è vita, mentre in tutto il resto dell'universo c'è solo ammoniaca e metano». Che definizione darebbe di sé? «Oscillo tra alcuni aspetti di me che ritengo nobili e altri abitudinari e provinciali». Concretamente cosa significa? «Sono uno che quando c'era da fare la guerra partigiana l'ha fatta. Ma sono anche attaccato ai soldi e al mangiar bene. Sono abitato da piccole pigrizie mentali. Insomma c'è in me un lato grigio col quale convivo». Non è colorabile? «Direi di no, visto che non ci sono riuscito in tutti questi anni». Ma questo attaccamento ai soldi è un po' curioso in una persona che non si è mai lasciata condizionare da niente. Non trova? «Per i soldi sono semplicemente prudente. Però vedo anch'io la contraddizione: sono un mix di alte qualità e di mediocrità». Abbiamo tutti qualcosa di mediocre. «Ma io parlo per me. Non ho scelto di essere eroico quando l' occasione si è presentata. Sono stato costretto a comportarmi da eroe. Voglio dire che l' occupazione tedesca è stata per me una manna, mi ha obbligato ad essere coraggioso». È stata dura la guerra partigiana? «Dura e insieme una straordinaria e meravigliosa vacanza». Che cosa le ha insegnato? «Ho capito che ero negato al comando degli uomini. Ho fatto molte missioni rischiose. Alcune le ho dirette. Ma è stata una grande sofferenza sapere che da una tua decisione dipendeva la vita di altre persone». Cos' è che non le piace del comando? «La finzione e i rituali che il potere innesca. Sono sempre fuggito dal potere, dai suoi condizionamenti, dai suoi compromessi. Meglio la libertà dai vincoli». Quanta anarchia c'è in questa affermazione? «Molta. L' intollerabilità alla disciplina era in me un fatto spontaneo. Il che non mi ha impedito, da buon piemontese, di fare sempre il mio dovere, anche nelle situazioni più difficili». Ha mai provato il sentimento della paura? «Tantissime volte. Sia nella guerra partigiana che in quelle in cui andavo come inviato. Ricordo che durante la "Guerra dei sei giorni", nel bel mezzo di una tregua, ci spingemmo con una camionetta sino al Canale di Suez. Dormivamo sulla sabbia in un freddo terrificante, quando gli egiziani, dall' altra parte del Canale, cominciarono a spararci colpi da mortaio. Non è stato piacevole». Cosa prova oggi davanti a quegli episodi? «Mi fanno ripensare soprattutto alla mia immoralità. Avevo una moglie e una figlia. Ma per il giornalismo ero disposto a piantare tutto e andare via per mesi. Rischiando la pelle, spesso inutilmente. Quando ero a Saigon, uscivo la sera. Il portinaio dell' albergo cercava di dissuadermi: "non esca, o perlomeno non si porti molti soldi, in giro ci sono solo ladri, puttane e assassini" diceva. Ma io sono sempre stato un uomo di rischio e il gioco per me era di non avere paura della paura». Lei ha raccontato questo paese in lungo e in largo. Con speranza, delusione, rabbia. Si può dire che con gli anni Sessanta comincia la grande trasformazione? «Per me l' Italiaè cambiata nel momento in cui sono diventato vecchio. Prima di allora ho sempre coltivato la speranza che questo paese attraverso i suoi uomini migliori ce la potesse fare. Ora ho l'impressione che siamo finiti nella merda. Gente che ruba, gente che sta al governo ed è intrinseca al potere mafioso. I romanzi spesso raccontano di dannati che alla fine si redimono. Qui non vedo nessuna redenzione». La causa? «Il fattore principale è l'abbondanza. C'è ancora molto da rubare». La scopriamo pauperista? «Non sono religioso, ma come insegna il Vangelo la povertà non è un difetto. Un po' di castità e di risparmio farebbe bene alla nostra società. E anche un po' meno televisione, che ha contribuito a questa mutazione antropologica, per cui gli italiani sono diventati irriconoscibili». Lei guarda la televisione? «Purtroppo sì, la sera mi metto davanti allo schermo». Si indigna? «No, provo un senso di schifo. Se fossi più giovane troverei le ragioni di combattere e di sperare nuovamente. Ma sono vecchio e mi sento molto rassegnato». Ma cos'è questa vecchiaia che la incatena? «È non avere più la forza necessaria. Il che per uno cheè stato sempre molto attivo è una bella seccatura». Tutto qui? «È anche il prosciugarsi dei desideri. Quando ero giovane prima di addormentarmi conquistavo sempre un impero. Adesso al massimo conquisto un po' di sonno». Sogna? «No, almeno non ricordo e quelle poche volte che accade sono sogni strani, quasi degli incubi. Ma non mi preoccupo più di tanto. La sola cosa che rimpiango è l' assenza del desiderio. Non sono più giovane, non ho appetito, le donne non mi interessano più. Capisce? Tutto è diventato molto noioso». Però scrive. «È vero, almeno da quel lato mi è andata bene. Non mi sono rincoglionito». E Dio - per tornare sull'argomento - lo ha proprio escluso del tutto? «È lui che ha escluso me. Capisco il bisogno di cercarlo. Ma non capisco tutta la fatica che ci vuole. Sono amico di alcuni teologi, ma non mi hanno convinto della necessità di cercare questo Dio nascosto. Ci sarà anche, ma se devo fare una fatica così grande per trovarlo, ne faccio a meno». Cosa prevede per i suoi novant'anni? «Ho un po' paura dei festeggiamenti. Li trovo ridicoli. E poi non sai mai se quello che ti accade intorno sia sincero oppure no. Di cosa dovrei rallegrarmi? Sono un giornalista al tramonto, il cui mestiere - per come lo svolgevo - è morto. Non avrei del resto più la forza per giustificarlo». Senza retorica, lei rimane un grande giornalista. «Sa, il giornalismo non è come la filosofia o la religione, alle quali ti puoi attaccare anche quando sei sul letto di morte. Comunque meglio che se mi dicessero: sei stato un fesso». Lei è davvero così burbero e di poche parole come pensa larga parte di chi la conosce? «Nell' intimo, diciamo affettivamente, mi sento un napoletano. Se appaio burbero e di poche parole è perché a volte mi sento a disagio». Un timido? «Diciamo un piemontese dal carattere un po' difficile». - ANTONIO GNOLI